


Le previsioni si sono trasformate in certezze e questo settembre ci ha obbligato agli straordinari. La carne al fuoco è tanta quindi bando alle ciance e subito dentro al tema dedicando chiaramente l'apertura all'album che più di tutti ha meritato la nostra attenzione, ovvero il debutto del trio scozzese
Chvrches con
The Bones of What You Believe, cui abbiamo dedicato una recensione ad hoc. A guidare il gruppo degli inseguitori ecco, un po' a sorpresa, la band di
Alex Turner. Non pensavo avrei riascoltato con piacere un album degli
Arctic Monkeys ed invece
AM (
7,5) risulta un'opera matura seguendo un po' il percorso dei
Vampire Weekend: a sonorità meno briose e ritmi più blandi fa da contraltare un lavoro più quadrato e ragionato in cui singoli e possibili futuri tali si sprecano.
R U Mine? potrebbe essere estratto da qualunque degli album del quartetto inglese mentre
Do I Wanna Know e
Why'd You Only Call Me When You Are Down? rappresentano l'essenza di questo quinto album. Stessa cadenza compassata e stesso mood dark. Brani carichi di energia sono solo un ricordo mentre
No.1 Party Anthem è soltanto il più prezioso dei lenti. Contraddittorio nell'esito e nel giudizio è
MGMT (
6,5), album omonimo del duo synth-pop newyorkese. Piaccia o meno, ciò che non manca certo è la tendenza a sperimentare senza il timore di allontarsi dal prodotto sicuro che portò al successo di
Oracular Spectacular e
Congratulations. Forse non tutti i fan apprezzeranno ma il pop tanto psichedelico quanto vintage trova consenso nei singoli
Alien Days,
Cool Song No. 2 e la provocatoria
Your Life Is a Lie così come nell'orecchiabile
Introspection lasciando qualche perplessità in una seconda metà con troppi colpi a vuoto. L'angolo "beata ignoranza" ci impone un doveroso stop dinnanzi al ritorno delle Super-Main(stream)
Icona Pop. Sebbene il primo singolo
I Love It (feat. Charlie XCX) sia giunto ormai a nausearci (rimanendo in ogni caso una bomba), è con riluttanza che ci tocca ammettere che
This Is... (
7,5) faccia in pieno il suo dovere. Dance-Pop battente
que te engancha:
Girlfriend è il nuovo singolo scelto che avrebbe potuto tranquillamente essere
All Night (e lo sarà),
Ready For Weekend o
On a Roll (altro sicuro singolo), anche se il nostro animo puro ci porta a sottolineare la semplice bellezza di
Just Another Night in un album che se fosse uscito a giugno sarebbe diventato disco di platino in una settimana (che chiaramente non è un pregio...). Sconsigliato alle orecchie sopraffine. Tornando a parlare di musica, pardon,
Musica, ecco il
Ritorno di
Mazzy Star. 17 anni lontani dagli studi di registrazione ma non per questo dai nostri cuori,
Seasons of Your Day (
7) è apprezzato un po' a priori ed un po' perchè la voce di
Hope Sandoval non ha perso incisività e la fattura di brani senza stagione azzerano il lasso temporale trascorso. Forse non troverete la
Fade Into You che ha fatto innamorare un intera generazione ma le splendide ed un po' malinconiche melodie di
In The Kingdom,
California e
I've Gotta Stop rappresentano solo l'incipit di un album caldo e piacevolmente familiare. Sempre a proposito di corde vocali,
Justin Vernon possiede proprio quel tipo di voce che ha il potere di predisporre (/rmi) positivamente indipendentemente dal contesto in cui fa la sua comparsa (forse secondo solo a Sufjan Stevens), che sia come
Bon Iver o come seconda voce nel recente
Yeezus o, come in questo caso, come parte del progetto
Volcano Choir.
Repave (
7,5) abbandona le sperimentazioni pur rimanendo un folk-rock d'avanguardia con la voce di Vernon a conferire quel tocco di spiritualità tipico del genio del Wisconsin.
Comrade è il singolo prescelto e probabilmente la gemma dell'album (non a caso la traccia più boniveriana dell'opera), perfettamente avvolta da altre due tracce sopraffine quali
Acetate e
Byegone. Ritorno più asettico non poteva invece essere quello di
Goldfrapp.
Tales of Us (
6) rappresenta un ritorno al passato con l'ennesimo cambio di abito verso il primitivo pop ambient
witchy che non riesce a lasciare il segno e solo raramente cattura l'attenzione. Non perdiamo tempo e passiamo oltre. Il genere alternative dance tendente al synth-pop segnala due ritorni con esiti piacevolmente analoghi. Il secondo album degli
Holy Ghost!,
Dynamics (
7), offre lo stesso piatto dell'esordio solo po' più retrò, carico di motivi accattivanti con i singoli
Okay e
Dumb Disco Ideas più una manciata di altre tracce cariche di serotonina come
Change of Guards o
Don't Look Down ed altre più riflessive come la notevole
It Must Be The Weather (molto New Order) o
I Wanna Be Your Hand (Duran Duran?). I
Delorean con
Subiza (2010) hanno svoltato (in tutti i sensi, stile ed esito) ed ora
Apar (
7)
risulta un ulteriore passo in avanti verso un prodotto più rifinito e definito pur danzando all'interno di generi eterogenei. A fornire un valore aggiunto ai singoli
Destitute Time e
Spirit ecco la splendida voce di
Caroline Polachek dei
Chairlift protagonista di
Hold oltre a
Cameron Mesirow aka
Glasser ed
Erika Spring di
Au Revoir Simone a firmare i cori. E visto che di donne si parlava ecco il pretesto perfetto per introdurre il ritorno di due icone, anche se di dimensioni molto diverse.
Kim Gordon non necessita presentazioni, un po' di più il suo nuovo progetto condiviso con
Bill Nace, entrambi alla chitarra,
Body/Head. Di
Coming Apart (
6,5) l'apripista
Abstract nè è il chiaro manifesto: canzoni lente e per lo più statiche, assenza di beat e voce monotona della Gordon che si trascina lungo i brani. Altro brio, com'era prevedibile per l'attivissima
Frankie Rose, una vita in batteria tra
Vivian Girls,
Dum Dum Girls e
Crystal Stilts e già autrice di uno splendido esordio con
Interstellar (2012). Non all'altezza del predecessore,
Herein Wild (7) rimane un'opera interessante che passa con disinvoltura dal post-rock primitivo dell'artista con
The Depths a un pop più puro spingendosi al limite del dreamy con
You For Me e
Sorrow... Ed eccoci ai debutti più rilevanti del mese anche se alcuni con curriculum già eccellenti. Analoghi i percorsi (nonchè provenienza e genere) di
The 1975 e
Swim Deep, opposti gli esiti. I primi con l'album omonimo (
The 1975 -
5,5) deludono in tutta la linea con un'opera blanda e monocorda non all'altezza dei singoli
Chocolate e
The City che avevano attratto l'attenzione dei media e calamitato schiere di fans. La seconda giovane e promettente alternative rock band inglese invece sbanca con
Where The Heaven Are We (
7), album quadrato e compatto, melodico e battente al punto giusto con tormentoni in grado di rimanere attaccati alla nostra mente a lungo,
King City tra tutti senza dimenticare le dolci sonorità di
She Changes The Weather. Meno sponsorizzato il debutto omonimo (
7) dei sudafricani
John Wizards, ciononostante e forse per questo il melting pot di sonorità tra dub reggae, R&B, classical, jazz, high-speed African dance music (vedi Vampire Weekend),
electro-pop, tropicalia, folk, Congolese rumba, Mali meditative music risulta vincente in maniera vorticosa. Chiudiamo rapidamente aggiungendo un po' di beat industrial a questa recensione con l'esordio vincente (
7) dei
Factory Floor il cui album omonimo soddisferà in pieno gli amanti del genere ed avvicinerà chi il genere lo ha sempre osservato con occhio torvo. Esordio incolore da solista per
Jonathan Rado (ex o attuale Foxygen, non si sa) con un
Law & Order (
5,5) decisamente ordinario nel suo folk noiosamente americano. Infine anche i
Mùm tornano in pista con
Smilewound (
6), ossia un'opera non memorabile ma che ha il dono di farci rivivere in alcuni tratti epoche di fasti passati ed in parte, fino ad ora, dimenticati...
Ecco a voi la playlist del mese di Settembre
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