lunedì 1 aprile 2013

IN DIE HISTORY // Jónsi & Alex - Riceboy Sleeps


by Manuela Marascio


Riceboy Sleeps (uscito nel 2009, con l’etichetta Parlophone) è il primo album inciso da Jón Þór Birgisson, detto Jónsi , chitarrista e cantante del gruppo islandese Sigur Rós, assieme al compagno Alex Somers. Nove tracce strumentali accompagnate dal coro Kópavogsdætur e del quartetto islandese Amiina. L’ouverture (Happiness) è un delicato velo scomposto dal vento, che lascia intravedere una misteriosa landa sconosciuta; siamo fermi sulla soglia, incerti se fare quel passo che ci porterà dall’altra parte, quasi timorosi di non riuscire a reggere la perdizione nella pace più sconfinata. Con Atlas Song la curiosità ha preso il sopravvento: adesso è fin troppo facile lasciarsi sospingere dai suoni dell’ambiente circostante, voci lontane che ci avviluppano le orecchie come l’eco di ricordi che lentamente affiorano, e si mescolano ai nostri cinque sensi sempre meno distinguibili, sempre più confusi; ma a un tratto i cori si placano, ed è come essere colti dal risveglio più sensuale dopo un sogno, prima di ricadere nel dormiveglia. È la coda di un sonno interrotto poco prima che venga contaminato dall’inquietudine. Cosa succede quando un pezzo del passato forza le barriere della nostra mente per riconquistarsi uno spazio ormai perduto? Nessuna resistenza tenace, ma una semplice pausa meditativa, scandita dalla melodia di Indian Summer, inizialmente appena accennata, poi condotta lentamente a una rilassata distensione che cerca di definirsi e plasmarsi come voce-corpo. Il risultato è un’immagine dai contorni netti che, così come apparsa all’improvviso, in un soffio svanisce. Si torna all’appianamento della parabola emotiva e sensoriale con Stokkseyri, prima di oscillare nuovamente nel vortice ipnotico del corale Boy 1904. Qui la limpidezza vocale ha il sapore di un messaggio recapitato a un cuore finalmente aperto ad accoglierlo, dopo incertezze e ritrosie -  un messaggio che ha l’impronta di una predestinazione quasi sacrale. È il pezzo spartiacque, che introduce a un immaginario secondo capitolo della storia che stiamo cercando di tracciare, fatta di ricerca – dentro di noi, fuori da noi – e del sospirato ritrovamento di un qualcosa. In All The Big Trees le due note regolarmente ripetute, che si direbbero appese a fronde danzanti, si disperdono poi in una nuova sospensione contemplativa, che dà l’avvio a una goduta visione panoramica (Danìell In The Sea) come dall’alto di un luogo raggiunto faticosamente dopo tanto tempo. Anche il coro si è immerso nel continuo flusso vitale che rinvigorisce le membra stanche, il suo fiato lungo è un fresco alito di ossigeno che ci riempie le narici. Howl è un’effusione lirica resa intensa dalla mistura di suoni e rumori, che non sfocia nel disordine, anzi, riesce a delineare un percorso uditivo che avrà il suo giusto approdo nella chiusa (Sleeping Giant): il compimento del cerchio, al cui interno si rimescerà ancora il ricordo inseguito con tanta costanza, come dentro un paiolo caldo da cui scaturisce il tassello mancante di un’esistenza.







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