Un marzo discografico che sembra rispecchiare il timido ingresso della primavera, caratterizzato da lampi luminosi e caldi e da giorni incerti che deludono le nostre sempre avide attese. E così si passa dall'abbagliante ritorno di Youth Lagoon che con Wondrous Bughouse conquista la vetta nelle nostre preferenze ad altri due ritorni che sebbene musicalmente agli antipodi donano un gradito colorito ai nostri timpani. E così sono il folk contemporaneo del Muchacho di Phosphorescent e la nuova ondata elettronica Calatalana rappresentata dal Hope Only Brings Pain del duo The Suicide of Western Culture a conquistare i gradini più bassi del podio forse un po' a sorpresa perchè il ritorno alla ribalta di grandi nomi lasciava presagire un esito differente. Non possiamo comunque certo lamentarci dell'ottimo ritorno di Justin Timberlake che con The 20/20 Experience (voto 7,5) conquista tutte le orecchie, anche le più diffidenti. Sei anni di assenza ben spesi che ci riportano un Justin più maturo in cui alla sensualità di Future Sex/Love Sounds sostituisce un prodotto più profondo e sofisticato di cui Mirrors è certamente l'emblema ed in cui, come dimostrano Suit & Tie o Don't Hold The Wall (per dirne due) il ritmo è assoluto ed indiscusso protagonista. Se sei anni non hanno tolto smalto al poliedrico artista americano stesso discorso si può fare per un altro poliedrico artista, questa volta britannico, perchè la sempre luminosa stella di David Bowie, a distanza di dieci anni brilla ancora come brillava allora e The Next Day (voto 7,5) azzera in un lampo il lasso temporale. Un album che suona come un diario con tutte le peculiarità che ne hanno accompagnato la carriera. Non solo due singoli da hit come Where Are We Now? e The Stars (Are Out Tonight) ma un intero repertorio, dal ritmato al limite del ballabile con If You Can See Me o l'apripista The Next Day alla dolce Valentine's Day che pare rubata dalla colonna sonora di un pellicola anni '80. Discorso differente per altre stelle della musica oltremanica dal momento che Delta Machine (6,5) dei Depeche Mode fatica a convincere del tutto anche gli appassionati e risulta opera a tratti anonima in cui ad esaltare più che le sonorità synth-pop dei singolo Heaven ed Angel sono le tracce più elettroniche dell'album, Should Be Higher e Soothe My Soul che ci ricordano una volta ancora ciò che ci lega così fortemente a questa band. Discorso analogo si potrebbe fare per gli Strokes, di ritorno quasi malavoglia con un album, Comedown Machine (6) decisamente al di sotto delle attese e dei predecessori. Indicativo il fatto che la traccia One Way Trigger, teaser accolto con delusione a precedere un insipido primo singolo All The Time risulta uno tra i brani più piacevoli dell'album. A salvare la sufficienza il marchio di Casablancas & C e qualche traccia vecchio stampo come l'aggressiva 50/50 ed la frizzante Chances che possiede tutte le caratteristiche del singolo in 39 minuti di rarefatta brillantezza. Sebbene non propriamente mainstream chiudiamo la parentesi degli artisti consolidati con l'alternative-rock band americana dei Low giunti al decimo album ma che con The Invisible Way (7) dimostrano di non aver perso lo smalto del primo decennio. La prolifica coppia (nel lavoro come nella vita) ci regala così un tuffo in un mondo tanto incantato quanto malinconico accompagnato da pianoforte e chitarra in cui spetta a Mimì regalarci con Just Make It Stop uno tra i brani più emozionanti dell'anno. La schiera degli artisti in erba è anche questo mese quantomeno arrembante partendo dai giovani Wavves capitanati da Nathan Williams, che arrembanti lo sono per stile. A farci dondolare questa volta sono le sonorità a cavallo tra punk-pop e surf-rock di Afraid of Heights (7) che ci incollano al nostro lettore fin dai primi brani, Sail To The Sun e Demon To Lean On, non a caso singoli dell'album. Da contraltare la sensazione che, nonostante la capacità di maneggiare con sapienza anche tracce meno istintive come nel caso di Dog o Afraid of Heights, il trio non sia ancora riuscito a fare il salto di qualità che ci si attenderebbe giunti al quarto album. Mantenendo in qualche maniera lo stesso registro musicale ecco il ritorno per The Men o sarebbe meglio dire "la rinascita" perchè New Moon (7) segna già un taglio col passato, alla ricerca (o riscoperta) tanto cara agli americana delle radici della musica. Per comprenderne l'esito non bisogna allontanarsi molto, dal momento che le due tracce iniziali Open The Door e Half Angel Half Light ci forniscono già tutte le risposte che attendevamo e che non vi deluderanno se non vi spaventano le novità. E se non vi intimoriscono gli occasionali abbagli di Pitchfork, pronto a stupire vi attende anche il sensazionale secondo album dei canadesi Suuns pure loro freschi di cambio d'abito verso un più comodo post-rock con un retrogusto elettronico che ci avvolge e ci esalta per due terzi di un'opera, Images Du Futur (7,5) che va in calando perdendo il treno per il capolavoro ma lasciandoci comunque con 2020, Minor Work e Mirror Mirror una sequenza ravvicinata da brivido. Chi invece non cambia veste è il folk alternativo di Katie Crutchfield aka Waxahatchee che con la seconda opera Cerulean Salt (6,5) conferma tanto il tiepido interesse quanto l'idea dell'opera piacevole quanto sopravvalutata nonostante la brillante voce della cantautrice newyorkese riesca in tracce come Dixie Cups And Jars e Peace and Quiet ad affascinare il nostro animo. Se TSOWC si sono guadagnati il podio, rimanendo in ambito elettronico non ha certo sfigurato nemmeno la seconda opera di Dj Koze, Amygdala (7,5). Deejay universalmente apprezzato e punta di diamante dell'etichetta Kompakt (The Field, Panda Bear) torna dopo 8 anni per mostrare, o meglio, ostentare tutto il suo repertorio avvalendosi dell'ausilio di nomi di primo piano quali Caribou (Track ID Anyone?), Apparat (Nice Wolkchen), Matthew Dear (Magical Boy) in una giostra che ci fa ruotare tra Pop, House, Sperimentale e su cui non salire sarebbe un delitto. Per chiudere ecco i debutti più attesi incominciando da Woodkid, regista, videoartista e chiaramente musicista autore di un The Golden Age (6,5) largamente anticipato da singoli quali Iron e Run Boy Run, che sebbene indubbiamente affascinanti devono la loro notorietà principalmente alla qualità dei videoclip, opera dello stesso artista francese. Sarà per l'impronta marcatamente mainstream o per un percorso che ripete troppo spesso lo schema voce profonda accompagnata da piano e ritmi galoppanti (The Golden Age, The Great Escape) ma l'opera senza dubbio gradevole ci conquista maggiormente là dove i toni calano (Boat Song, The Shore). Tutta un'altra dimensione ci viene offerta dal meraviglioso eserdio della indie-pop band londinese Daughter con If You Leave (7,5), opera incredibilmente malinconica e personale ma allo stesso tempo un po' di tutti. La voce di Elena Tonra che nulla ha da invidiare a Florence Welch ci regala un viaggio attraverso un album che è un gioiello a cui manca forse solo la perla che ne fa il capolavoro. Da Winter a Youth a Still a Touch tanta legna per scaldare il nostro animo e nessuna battuta d'arresta. Non troppo dissimilmente ci ritroviamo incantati dal pop dei Rhye, progetto avvolto dal mistero fin dai primi singoli The Fall ed Open che avevano preannunciato il successo per Women (7,5) ma che a dispetto del nome e dalla voce femminea si rileva essere un progetto tutto al maschile formato da Mike Milosh e Robin Hannibal. Superata la sorpresa ci resta un prodotto contaminato di R&B contemporaneo dolce ma allo stesso tempo con 3 Days ed Hunger anche brioso e brillante che lo rendono probabilmente il miglior debutto del mese appena trascorso.
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Bell'articolo, Mavri!
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