Dopo qualche mese di relativa calma dovuta alle vacanze di fine anno eccoci fin da febbraio di nuovo ridotti agli straordinari allo scopo di ascoltare ed, in diversi casi, gustare il meglio della produzione degli ultimi 28 giorni. A meritare gli onori ed il nostro gradino più alto del podio ecco Angel Olsen con il profondo, incisivo ed elettrico folk di Burn Your Fire for No Witness meritevole del nostro Best New. Stessa sorte per una delle regine del momento ovvero l'affascinante Annie Clark aka St. Vincent autrice con il suo album omonimo di un'altra perla pop sperimentale che tra le sue mani si tramuta in arte, innalzando la Clark ufficialmente tra le artiste più apprezzata e celebrata del panorama contemporaneo. Tanti candidati per la terza piazza a partire dal produttore svedese CEO capace di bissare con l'eclettico e festaiolo sound avvolgente di Wonderland il successo dell'esordio, lasciando in ogni caso l'amaro in bocca a chi si attendeva uno tra gli album migliori dell'anno.
Fonte di gioia per le orecchie, il quarto album degli inglese Bombay Bicycle Club rappresenta il punto più alto della band. So Long, See You Tomorrow (7,5) è un disco all'insegna dell'eclettismo e del postmodernismo con influenze raccolte ed assimilate con sapienza da Animal Collective, Passion Pit, Flaming Lips, tra gli altri. La fuga psichedelica ed ipnotica di Carry Me rappresenta la perla adeguatamente sostenuta dai sensuali arrangiamenti di Luna o dalla eroica overture di Overdone. Ritmi agli antipodi ed esito analogo con il ritorno di Marissa Nadler. Eviteremo il termine etereo tanto odiato dalla cantautrice del Massachusetts per descrivere il meraviglioso July (7,5) che tracceremo come incantevolmente nostalgico e sospeso. Un folk lamentoso ma ugualmente carico di energia che trova nella intro Drive (Fade Into) il suo perfetto manifesto all'insegna del ricordo (We Are Coming Back) e di amori impossibili e lontani (Anyone Else e 1923). Il ruolo di outsider a sorpresa lo merita senza dubbio il globetrotter, canadese di nascita Thomas Arsenault aka Mas Ysa, che con il suo primo EP allargato Worth conquista fin dal primo ascolto per il suo gusto pop elettronico dalle venature fieramente retro come dimostra il tormentone Why o la più aggressiva e battente Shame. Chi il ruolo di outsider lo ha archiviato da un pezzo è il californiano Beck, di ritorno dopo sei anni con il suo dodicesimo album, Morning Phase (7), che porta con se la classe dell'artista unita a quel grado di maturità che il tempo, se coltivato, impreziosisce. Un classico fin dalle prime note, luminoso (Morning) e semplice (Heart is a Drum), quasi alla ricerca della purezza ma anche toccante quando serve (Blue Moon o Wave). Orecchiabile sì, molto, ma lontano dal rimanere memorabile così come si potrebbe dire in maniera del tutto analoga di un altro ritorno da stropicciarsi le orecchie cioè quello di Neneh Cherry. La sorella di Eagle Eye Cherry di anni per sfornare un nuovo album ne ha impiegati ben 16 che non le hanno fatto perdere ne l'antico smalto ne il fiuto per il nuovo tant'è che per Blank Project (7) si avvale in fase di produzione della pregiata figura di Four Tet. Il risultato è un prodotto soul fortemente ritmato (Blank Project) grazie anche alla collaborazione con il progetto Rocketnumbernine ed ovviamente immancabilmente elettronico con la mano di Kieran Hebden a calcare pesante in tracce come la splendida Naked o Out of the Black che vanta la collaborazione della compaesana Robyn. Che i tempo richiamino sonorità più contemporanee e l'utilizzo più o meno blando di supporti elettronici o sintetici non deve ormai più stupire tant'è che anche gli inglesi Wild Beasts hanno infine dovuto scendervi a compromessi con il soddisfacente Present Tense di cui tutto si è già detto in fase di recensione. The Notwist invece, dell'attrazione verso patterns elettronici ne ha fatto un marchio di fabbrica, almeno negli ultimi album e il neo Close To The Glass (7) riprende il filo interrotto nel 2008 con The Devil, You + Me. La band tedesca si diverte e ci diverte alternando soluzioni puramente pop come la riuscitissima Kong o Casino ad intrighi più sperimentali che ci divertono ugualmente, vedasi Run Run Run o la strumentale Lineri. Chi invece il successo lo ha accarezzato senza compromessi e con un'opera completamente fedele alla propria indole fatta di parole che parlano al cuore e strumenti acustici è Mark Kozelek aka Sun Kil Moon. Ogni traccia di Benji (7) parla di se, delle proprie esperienze, con la morte come attore non protagonista ma sempre presente. Difficile non farsi incantare dai paesaggi folk che ci presentano tutte le sfumature di un'America incontaminata: il tramonto di Carissa, la notte cupa di Truck Driver o i mattini più soleggiati di Dogs. Allo stesso modo impossibile accettare Benji come capolavoro assoluto così come testate imponenti vorrebbero farci credere... Nonostante un'assenza di 15 anni dal jet-set discografico il ritorno delle ex star Cibo Matto attrae meno attenzioni e nonostante l'apporto di Kotche dei Wilco e Refosco degli Atoms For Peace trova in fase di pubblicazioni meno consensi. Ciò nonostante Hotel Valentine (6,5) nella sua discontinuità ci regala attimi di svago all'insegna di quel trip hop in versione un po' più raffinata che era stato a tratti esaltante in passato. Difficile inquadrare il secondo lavoro del duo formato da Sarah Barthel e Josh Carter e noto come Phantogram. Nell'album Voices (6,5) incontriamo un rock elettronico a tratti sfavillante come in Black Out Days, deliziosamente retrò in Fall in Love o impareggiabilmente toccante come in Bill Murray, traccia che pare scritta dagli Slowdive e rivista per figurare nella sua rivisitazione Blue Skied an' Clear magari per mano dei Lali Puna. Per i restanti lunghi tratti purtroppo si naviga a vista... Più lineare ma in definitiva non troppo distante qualitativamente il disco di debutto degli inglesi Temples di scena al prossimo Primavera Sound il mercoledì del Forum. Pochi ascolti sono sufficienti per rendersi conto che la banda guidata da Thomas Edison Warmsley e James Edward Bagshaw ha un credito aperto nei confronti dei Beatles e forse ancor di più dei Kasabian (vedi Sun Structures). Sun Structures (6,5), l'album, ci lascia in dono in ogni caso ritornelli apprezzabili come con Mesmerise, buoni riffs (The Golden Throne) e qualche coro ammaliante (Shelter Song). Chi il palco del Primavera lo ha calcato l'hanno passato è l'altra band britannica Cheatahs che proprio questo mese ha lanciato il proprio debutto omonimo (6,5). Il quartetto londinese a differenza dei Temples affonda le proprie radici musicali oltreoceano offrendoci un indie-rock prossimo allo shoegaze più facilmente accostabile a Pixies o Dinosaur Jr, per il momento solo stilisticamente.
Per noi che non abbiamo mai nascosto la stima nei confronti di Alex Willner aka The Field era impossibile non dare una sbirciata al suo esordio come Hands, progetto in cui il producer minimal indirizza con un certo stile, sebbene ancora smussabile, il suo lato noise/drone. Delle 4 lunghe tracce ambient che formano The Soul Is Quick (6,5) le prime due, più apprezzabili fanno leva su un certo retrogusto industrial che cede (anche qualitativamente) alla sperimentazione nelle ultime due.
(gennaio )
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