Piú di un mese, mille storie cui a voi interessa poco, ed un Sonar di
mezzo e siamo qui a concludere ora la nostra raccolta di report
giornalieri scoprendo come le cose davvero belle, ahimé, rimangano
impresse indelebilmente a distanza di tempo con gli stessi colori vividi
ed, a tratti, gli stessi odori. Odori di Primavera, di quella stagione
che dura una settimana e si conclude, ormai da anni, almeno per noi, di domenica mattina con il sole in faccia, ed il
Mare Nostrum lí a due passi ad amplificare i raggi che fungono da
sveglia per riportarci alla vita reale. Anche se di reale al di fuori
delle mura amiche del recinto del Forum, sembra restare davvero ben
poco...
Ma bando ai sentimentalismi e torniamo a fare un po' di
cronaca alla nostra maniera partendo dallo splendido regalo offertoci
dalla rivisitazione dell'ultim'ora del programma che ricolloca gli
attesissimi DIIV nell'orario ideale per iniziare la nostra giornata
conclusiva. Ore 18.30 siamo belli piazzati, birra in mano e sole in
faccia, ad una decina di metri da un Zachary Cole Smith che non fa dello
stile il suo cavallo di battaglia e che ha certamente da farsi
perdonare il forfait del 2013 oltre al fatto di avere come compagna una
certa Sky Ferreira... Sebbene il Pitchfork si confermi non il
palcoscenico ideale a livello di resa acustica ed una metá delle canzoni
vengano proposte per la prima volta il concerto si rivela un viaggio
sensoriale quasi inatteso chiuso dalla meravigliosa Doused lasciadoci
con l'acquolina in bocca in vista dell'ormai prossimo sophomore.
Ad
un Mac DeMarco mai entrato nelle nostre grazie e di scena nella lontana
Mordor preferiamo la classe cristallina e senza tempo di una bellezza
altrettanto cristallina ed altrettanto senza tempo (quasi 52 anni? ma
dove??) di un'icona della musica come Tori Amos. Scelta di cui nessuno
avrá a pentirsi. L'artista statunitense si destreggia tra due
pianoforti, visibilmente emozionata con una classe che supera le
aspettative e giustifica l'eco che accompagna il suo nome. Non é da meno
la scaletta prescelta che va da Bliss, traccia di apertura del concerto
come fu di quel To Venus and Back del 1999, alle celeberrime e piú datate
Crucify ed, ovviamente, Cornflake Girl a chiudere un'esibizione da occhi
lucidi.
Sebbene il cuore ci avrebbe portato a godere della splendida Torres, la logistica ed il desiderio di porgere un ultimo saluto ai Foxygen ci guida fino allo stage Primavera dove giungiamo a festa ampiamente iniziata e dove ci accoglie un Sam France visibilmente su di giri. Chi ha visto il concerto dall'inizio ci racconta di un ottimo live mentre la sensazione che abbiamo provato noi è esattamente quella che si prova quando si è gli unici sobri in un tavolo di amici ubriachi... Già sapevamo non avremmo goduto dell'amata San Francisco ma a consolarci ci pensa una No Destruction con cui ci congediamo dal connubio californiano. Abbiamo fatto i fighetti tutto il weekend tenendoci a dovuta distanza dai main stages ma il sabato abbiamo dovuto tirar giù le braghe al nostro lato più mainstream abbandonandoci ad un'attesa dobbietta con Interpol (cui nel 2011 avevamo preferito Caribou) e The Strokes. Nessun dubbio sulla qualità delle opere (sebbene in calando a parte un discreto ultimo El Pintor) di Paul Banks e compagnia bella. Il dubbio che accompagnav l'attesa era più legato alla resa dal vivo. A posteriori, confrontando l'esperienza si evince come la soddisfazione non sia stata unanime anche se personalmente non potevo attendere di meglio. Atmosfera e visual che perfettamente si adattano al mood che da sempre accompagna le sonorità della band newyorkese ed una scaletta che autocelebra la propria carriera omettendo solo il fallimentare album omonimo (anche se resto convinto che Light sia uno tra i brani meglio riusciti...). Con la toccante Untitled ci ritiriamo in cerca di una posizione degna cui assistere alla performance di Julian Casablancas, Albert Hammond Jr. e soci. Sarà la bassissima aspettativa che nutrivamo e la convinzione che ci sarebbe costato uno sforzo immane comprendere un decimo delle parole che uscivano dalla bocca del leader dell'altra band newyorkese della serata, fatto stà che il live si rivela godibilissimo e coinvolgente, certo non per merito dell'entusiasmo che trasuda dal quintetto, nullo, ma questo era noto ed non c'era motivo di attendersi un carico di serotonina scrosciante dal palco... Al primo concerto europeo dal Reading 2011 bisogna fare un grandissimo sforzo per trovare un fallo nella scaletta che regala, al meglio delle loro potenzialità, una ventina tra i brani che hanno reso celebra la band. Anche qui quasi impossible attendersi di più.
Al termine della performance non posso più rimandare il confronto con l'atroce dilemma che nel frattempo si era insinuato in me... Continuare con il "fiestòn" offerto dagli Underworld con tutto il resto della (mia) banda approfittando della logistica oppure rispettare il piano che prevedeva la via crucis che mi avrebbe portato nel giro di mezz'ora dinnanzi agli attesissimi Health comodamente ubicati nell'estremo opposto del recinto. Ad averla vinta è alla fine in rock elettronico del quartetto californiano, già sfuggito nel lontano 2010... Il "sacrificio" ci regala però una gradita sosta al Ray-Ban giusto il tempo di rendere omaggio al già apprezzato Dan Deacon (ovvero Moon-Man, e chi c'era nel 2013 sa di cosa sto parlando) proprio mentre offre al suo non così esiguo pubblico quella perla che è Feel The Lightning...
Il pensiero di aver fatto la scelta sbagliata si dissolve il meno di 3 minuti e si trasforma nel giro di un'ora scarsa nella fiera consapevolezza di aver assistito ad uno tra i live migliori di tutto il nostro festival. Energia strabordante, resa e scaletta dei brani impeccabile ed una presenza scenica molto particolare per chi conosce Jake Duzsik, l'ipnotico capellone John Famiglietti, le espressioni facciali di Jupiter Keyes e l'atipico incedete del batterista Ben Miller. Die Slow dal vivo è un'esperianza che tutti dovrebbero provare e la chiusura con USA Boys non potrebbe essere più degna.
Ad attenderci ora, logisticamente perfetto, l'amato Caribou con band al Ray-Ban, per quello che rappresenta l'evento conclusivo della kermesse catalana. E come tale lo spazio risulta inadeguato, come già successo per i Ratatat, tanto che per la prossima edizione bisognerà inventarsi qualcosa caro Gabi... Tornando a Dan Snaith, che dire, impeccabile, anche se per noi senza sorprese tal momento che risulta essere l'esatta copia della performance del Club To Club 2014 della nostra (sempre amata, credo di aver già ripetuto questo concetto) Torino... Prima parte di assestamento e di profilo un po' più basso come l'ultimo disco del fuoriclasse canadese ed una seconda metà che esplode con Odessa e ci trascinerà fino al delirio dell'extended version di quel capolavoro che è, e sempre sarà, Sun...
Fuggiamo dalla calca per assaporare le sonorità di Mike Simonetti, invero senza mai esaltarci, per poi tornare alla casa-base Ray-Bay per rivivere un film che si prolunga da ormai 6 stagioni. Dj Coco, il suo live discutibile, qualche pezzo strappalacrime, il sole che emerge dal mare ed i nostri volti che illuminati raccontano di una tre (ma anche quattro) giorni di passione, amore, sacrifici, stanchezza e un pizzico di tristezza che inizia ad insinuarsi dal momento che realizziamo che il conto alla rovescia per la prossima edizione tocca nuovamente il suo punto più ampio...
Ciao Primavera, lo sai che ti amiamo vero?
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