giovedì 6 novembre 2014

REPORT // La nostra 3 giorni al Primavera Club 2014




Non perderò tempo e non lo farò perdere a voi raccontando tutto ciò che ha caratterizzato un ultimo mese e mezzo personalmente rivoluzionario, con tutta la connotazione negativa che porta con se nelle fasi del suo sviluppo e tutti i benefici di cui si spera godere una volta completata; fatto sta che se esisteva un premio che ero certo di meritare questo si chiamava Primavera Club, anticamera ancor più indipendente del nostro Primavera Sound. Tornato a sorpresa dopo i dissapori col comune catalano della stagione 2012 il PC si presentava con un cartello (proporzionalmente) sorprendente e con almeno 8 nomi per cui stropicciarsi gli occhi anche se  a smorzare parzialmente gli entusiasmi e a creare qualche dissapore  ci pensava una fascia oraria molto ristretta e diverse scelte dolorose da adoperare...
Altro ostacolo da aggirare, questo estraneo all'organizzazione, la festa aziendale di Halloween cui era "consigliato" partecipare e che ha mutilato il programma del mio giorno inaugurale. Ma ad ogni problema esiste una soluzione e ad ogni festa un'uscita di sicurezza da cui scappare. Col una scelta dei tempi da veterano giungo al meraviglioso Teatre Principal giusto in tempo per infilarmi nella saletta laterale denominata Teatro Latino (e non mi soffermerò a descrivere le due meravigliose sale citate) per vedere salire sul palcoscenico il giovane britannico William Doyle noto come East India Youth. Abito grigio, cravatta scura e fermacravatta di metallo sono già un biglietto da visita di tutto rispetto ma i venti minuti che il mio programma concedeva superano le aspettative con un'elettronica che in versione live non perde in purezza e classe a partire dalla scontata intro Glitter Recession fino alla più attesa Dripping Down, perla di Total Strife Forever con la quale, ottenuto il minimo sindacale mi dirigo verso uno tra gli obiettivi principali della tre giorni ovvero i Fear of Men. Davanti ad un pubblico che avrei immaginavo più folto il quartetto di Brighton non delude ma neanche esalta eseguendo alla perfezione l'ottimo nonchè sottovalutato Loom con la dolcissima frontwoman Jessica Weiss che mi ipnotizzava con le sue movenze in loop e chi ha visto il "live on KEXP" sa a cosa mi riferisco. Giorno inaugurale racchiuso in poco più di un'ora ma in ogni caso decisamente appagante con l'unico rammarico di non aver assaporato anche solo uno stralcio dell'esibizione del funk, tra elettronico e psichedelico del finlandese Jaakko Eino Kalevi.
Nessun ostacolo invece per il sabato del festival che inizia nella sala Apolo con il duo madrileño elettronico sperimentale Der Panther conosciuti attraverso il recente concerto dei CHVRCHES di cui erano gruppo spalla. Nascosti dentro un cubo in controluce al fine di mantenere l'anonomito e, pare, non rubare spazio alla musica, l'accoppiata della capitale regala un live che come si legge un po' ovunque rievoca i ritmi onirici di Caribou e la folle psichedelia degli Animal Collective anche se più di tutti fa tornare alla mente il recente concerto dei Darkside soprattutto nei cambi di ritmo che caratterizzavano le seconde parti di ciascuna lunga traccia. Con tutte le dovute proporzioni del caso pollice in su. Percorsa Carrer Nou della Rambla in otto minuti contati ci ritroviamo al Teatre Latino a dar sfogo alla curiosità che accompagnava il concerto delle The Coathangers dal momento che sul forum del Primavera se ne decantavano le lodi. Se il debutto omonimo delle compaesane e compagne di merende dei Black Lips (Atlanta) ci sorprendeva piacevolmente per un'attitudine al punk mai banale ed un paio di "pezzoni" il live ergeva il trio al femminile a vera sorpresa del festival. Taglienti, aggressive, totali. La batteria contundente, maneggiata con destrezza da ogni componente scandiva inesorabile 40 minuti di esibizione letteralmente divorati. Non programmato ma perfetto se devi riempire 20 minuti di buco ci sorbiamo la teatralità un po' goffa dei Woman's Hour. Il quartetto londinese pop elettronico risulta certo non sgradevole ma troppo compassato e posato per calamitare la nostra attenzione che è già rivolta ad un altro quartetto ben più incisivo. Il piano è chiaro: godere 20 minuti dei White Lung contando sulla brevità delle tracce e poi catapultarsi da Strand of Oaks. Come ogni piano ovviamente il fallimento giunge inesorabile, o quasi. Problemi tecnici ritardano di 10 minuti l'evento ed io devo accontentarmi di tre tracce con la voce di Mish Way che risulta eccessivamente risucchiata dalla foga strumentale. Nel male quantomeno ho la fortuna di apprezzare due delle tre perle del recente album Deep Fantasy con Down It Goes e Drown With the Monster. Il piano di rientro alla base Apolo invece fila liscio ed il mio ingresso nell'affascinante sala centrale coincide con l'inizio del live di Timothy Showalter aka Strand of Oaks che grazie all'eccelso Heal si è guadagnato una visibilità fino ad ora sconosciuta nonostante altri 3 album all'attivo. Sarà l'inusuale componente elettronica od il fisico non proprio statuario ma a tratti in Timothy rivedo l'alter ego rock di John Grant. L'esibizione ruota quasi esclusivamente attorno alla recente opera e con una resa straordinaria ma ciò che la rende davvero memorabile è la carica indomabile del cantautore di Philadelphia, pubblicamente redento dagli eccessi del passato, mai banale nei suoi interventi e capace di travolgere un pubblico adorante in ogni frangente. Diretto anche quando giunge il momento di abbandonare il palco non utilizza molti giri di parole per confermare la sua presenza al nostro amato festival primaverile. Ed il nostro bis è già in agenda.
Se il nostro resoconto fino ad ora vi sembra trasudare entusiasmo sappiate che il meglio giungerà proprio con il programma domenicale. Spinto dalla curiosità, dall'assenza di alternative convincenti e, ahimè, anche dall'ottima recensione della rivista P4k decido di concedere una chance agli australiani Movement sebbene il poco materiale rilasciato non mi abbia mai convinto appieno. I 35 minuti di live ribaltano ogni giudizio ipnotizzando totalmente il qui scrivente e tutto il numeroso pubblico presente al Teatre Principal. Se la presenza scenica (nonchè l'abbigliamento) ricorda un po' The XX, tutto il resto risulta squisitamente unico: soul elettronico spoglio ma allo stesso tempo vibrante ed incisivo nella sua cadenza ritmica con la voce di Lewis Wade capace di penetrare in ogni fessura presente saturando l'ambiente di un'intimità inattesa ed insperata. Giusto il tempo di fiutare la meritata standing ovation finale e sono già in strada direzione Apolo. L'imminente Club To Club rende sopportabile il forfait per la performance dei Jungle che sarebbe avvenuto in ogni caso dal momento che nella mia personale scala di gradimento l'accoppiata Alvvays/Ought  risulta inarrivabile. I primi, come già successo per i Fear of Men, non hanno che da trasferire in versione live le incantatrici melodie (anche qui un po' sottovalutate dalla critica) del loro ottimo debut album. La voce di Molly Rankin impiega un paio di brani per incontrare il giusto registro dopo di chè snocciolate le diverse perle dell'album il quartetto canadese ci regala un assaggio del nuovo materiale che con un'unica eccezione sembra mancare dell'usuale mordente. Ci pensa in ogni caso il degno epilogo con Archie, Marry Me a rimettere le cose a posto. Mi godo l'ultima portata del Primavera Club como farei con un dessert al termine di una cena abbondante ed impeccabile, ovvero come una sorta di premio. Iniziato con un inusuale ritardo di 10 i canadesi Ought ci ripagano con gli interessi snocciolando in maniera quasi teatrale le diverse perle post-rock di quel signor debut album che è More Than Any Other Day. A sorprendere oltremodo il front-men Tim Beeler: personalità da star, chitarra impeccabile e voce davvero unica nel panorama. Ancora applausi a scena aperta, prolungati oltre modo, quasi a volervi includere tutti coloro che hanno reso possibile la festa che le nostre orecchie hanno ospitato in questi tre giorni davvero troppo rapidi...














Nessun commento:

Posta un commento

Translate